Tu come stai?
Quante volte sentiamo di dire (o ascoltare) la verità?
Quante volte, soprattutto in certi periodi dell'anno, sentiamo una dissonanza tra ciò che sentiamo e ciò che è socialmente accettabile?
Per me questa sfasatura si è fatta evidente quando ho vissuto negli USA, patria della "tossicità positiva" (toxic positivity):
dove tutto deve essere Great! Awesome! Amazing!, sottolineato da un sorriso di plastica, come direbbe Pino Daniele.
Una finzione che, per essere socialmente accettabile, finisce per farci sentire sbagliati e soli se dentro non siamo "alla grande".
La neuroscienziata Lisa Feldman Barrett ci offre una via alternativa:
il modo migliore per gestire un'emozione è nominarla con la massima accuratezza possibile.
Dare un nome preciso al nostro stato non è lamentarsi, è un atto di consapevolezza che regola il sistema nervoso.
Quando mi manca il fiato, soprattutto a Natale, ripenso a quando cantavo in coro e ci trovavamo a ripetere all'infinito le note trionfanti di "Oh Happy Day".
Ad ogni ripetizione, nella mia testa, quel "Happy" si sgretolava, trasformandosi in: "Oh Crappy Day".
È diventato il mio canto privato quando la pressione del "dover essere felici" si fa soffocante.
Soprattutto sotto le feste, un periodo che per molti (me compresa, dopo un lutto) è carico di ambivalenza.
"Crap", in inglese, significa schifezza, robaccia.
Nominare quel senso di "crappy" è stato un mio piccolo atto di adeguare le parole contro un ottimismo di facciata che non mi apparteneva.
Ma "crappy" è vago, l'invito della Barrett è andare oltre, a nominare con precisione quell'umore grigio:
Sei arrabbiatə, esasperatə, disperatə, allarmatə, ostile, acidə, cupə, mortificatə, delusə, inquietə, risentitə, impauritə, invidiosə, addoloratə, malinconicə?
Immagino lo sconcerto se rispondessimo così alla domanda "Come stai?".
Eppure, solo riconoscendo queste sfumature dentro di noi, possiamo iniziare a prenderci cura di quello che c'è, senza dover fingere che sia tutto "magico".
Questo Natale prova a definire il tuo "crappy".
È il primo, rivoluzionario passo per riconquistare il diritto a sentire ciò che senti, al di fuori di ogni copione tossicamente positivo.
Quante volte sentiamo di dire (o ascoltare) la verità?
Quante volte, soprattutto in certi periodi dell'anno, sentiamo una dissonanza tra ciò che sentiamo e ciò che è socialmente accettabile?
Per me questa sfasatura si è fatta evidente quando ho vissuto negli USA, patria della "tossicità positiva" (toxic positivity):
dove tutto deve essere Great! Awesome! Amazing!, sottolineato da un sorriso di plastica, come direbbe Pino Daniele.
Una finzione che, per essere socialmente accettabile, finisce per farci sentire sbagliati e soli se dentro non siamo "alla grande".
La neuroscienziata Lisa Feldman Barrett ci offre una via alternativa:
il modo migliore per gestire un'emozione è nominarla con la massima accuratezza possibile.
Dare un nome preciso al nostro stato non è lamentarsi, è un atto di consapevolezza che regola il sistema nervoso.
Quando mi manca il fiato, soprattutto a Natale, ripenso a quando cantavo in coro e ci trovavamo a ripetere all'infinito le note trionfanti di "Oh Happy Day".
Ad ogni ripetizione, nella mia testa, quel "Happy" si sgretolava, trasformandosi in: "Oh Crappy Day".
È diventato il mio canto privato quando la pressione del "dover essere felici" si fa soffocante.
Soprattutto sotto le feste, un periodo che per molti (me compresa, dopo un lutto) è carico di ambivalenza.
"Crap", in inglese, significa schifezza, robaccia.
Nominare quel senso di "crappy" è stato un mio piccolo atto di adeguare le parole contro un ottimismo di facciata che non mi apparteneva.
Ma "crappy" è vago, l'invito della Barrett è andare oltre, a nominare con precisione quell'umore grigio:
Sei arrabbiatə, esasperatə, disperatə, allarmatə, ostile, acidə, cupə, mortificatə, delusə, inquietə, risentitə, impauritə, invidiosə, addoloratə, malinconicə?
Immagino lo sconcerto se rispondessimo così alla domanda "Come stai?".
Eppure, solo riconoscendo queste sfumature dentro di noi, possiamo iniziare a prenderci cura di quello che c'è, senza dover fingere che sia tutto "magico".
Questo Natale prova a definire il tuo "crappy".
È il primo, rivoluzionario passo per riconquistare il diritto a sentire ciò che senti, al di fuori di ogni copione tossicamente positivo.




