Visionario come sempre, Stefano Benni è una conferma di comicità e invenzioni, storie incredibilmente reali, follie inseguite e sperimentate da ognuno di noi.
Parlo di Grammatica di Dio- sottotitolo "storie di solitudine ed allegria", venticinque storie da leggere per riflettere e rilassarsi, mettere a fuoco e sfocare.
Cos'è la solitudine nella tua vita, potresti interrogarti, quando l'hai sperimentata e cosa fai per abbracciarla, fuggirla, cercarla, negarla.
Ed ancora l'uso del cellulare, le relazioni inesistenti, i sogni trascurati.
Risposte date e celate, risate a mezza bocca e silenzi stellari.
Ti lascio con questa storia e mi chiedo cosa ne farai.
Se continuerà a bussarti dentro per cambiare il finale, il tuo ovviamente.
Se vorrai farne qualcosa dei tuoi sogni e rincontrarli, farli diventare reali per quanto possibile.
Un breve percorso di counseling o anche un singolo laboratorio di artcounseling può aiutarti a ritrovare direzione, motivazione ed azione per ciò che vuoi realizzare.
Continua qui e nell'altro blog una serie di proposte letterarie per crescere, riflettere, influire positivamente sulla mente e sul corpo secondo la Biblioterapia.
“Le lacrime” – Stefano Benni
Le prime apparvero all’alba in periferia. Gli addetti alla spazzatura ne trovarono una decina in un prato. Stavano per caricarle sul camion, pensando che fossero sacchi di plastica, quando si accorsero della loro stranezza.
Parlo di Grammatica di Dio- sottotitolo "storie di solitudine ed allegria", venticinque storie da leggere per riflettere e rilassarsi, mettere a fuoco e sfocare.
Cos'è la solitudine nella tua vita, potresti interrogarti, quando l'hai sperimentata e cosa fai per abbracciarla, fuggirla, cercarla, negarla.
Ed ancora l'uso del cellulare, le relazioni inesistenti, i sogni trascurati.
Risposte date e celate, risate a mezza bocca e silenzi stellari.
Ti lascio con questa storia e mi chiedo cosa ne farai.
Se continuerà a bussarti dentro per cambiare il finale, il tuo ovviamente.
Se vorrai farne qualcosa dei tuoi sogni e rincontrarli, farli diventare reali per quanto possibile.
Un breve percorso di counseling o anche un singolo laboratorio di artcounseling può aiutarti a ritrovare direzione, motivazione ed azione per ciò che vuoi realizzare.
Continua qui e nell'altro blog una serie di proposte letterarie per crescere, riflettere, influire positivamente sulla mente e sul corpo secondo la Biblioterapia.
“Le lacrime” – Stefano Benni
Le prime apparvero all’alba in periferia. Gli addetti alla spazzatura ne trovarono una decina in un prato. Stavano per caricarle sul camion, pensando che fossero sacchi di plastica, quando si accorsero della loro stranezza.
Grandi bolle sgonfie, meduse traslucide, alcune ovali, altre oblunghe, talune di forma irregolare, come un frutto flaccido e malformato.
Al tatto non erano viscide né molli, ma possedevano la consistenza della pelle di un animale, un delfino ad esempio, mentre alcuni avvertivano il calore di un tessuto morbido. In realtà , parevano consistere di materia diversa a seconda di chi le avvicinava.
Anche se sembravano guaste, morte, non emanavano cattivo odore. Erano di colori tenui e incerti, dal giallo chiaro all’azzurro perlaceo.
Ma quello che colpì i primi scopritori fu che dentro alla materia opalina, lattescente, di alcune di esse sembrava apparire, a tratti, l’ombra di un volto, o l’istantanea di una scena, e qualche volta dall’interno esalava un lieve suono, una voce remota. Le autorità presero in mano la situazione.
Ma quello che colpì i primi scopritori fu che dentro alla materia opalina, lattescente, di alcune di esse sembrava apparire, a tratti, l’ombra di un volto, o l’istantanea di una scena, e qualche volta dall’interno esalava un lieve suono, una voce remota. Le autorità presero in mano la situazione.
Le lacrime, o lacrimoidi, come furono subito battezzate, furono esaminate in luoghi diversi.
Alcune furono portate all’Istituto di medicina legale, altre alla facoltà di Zoologia, e un paio, segretamente, a un laboratorio militare che si diceva specializzato nello studio di apparizioni aliene. In un primo tempo corse la voce che potessero essere pericolose uova marziane, pronte a schiudersi e scatenare un’invasione. Ma le analisi stabilirono che non erano forme di vita, almeno come noi le intendiamo. Non avevano organi né metabolismo, erano inerti, formati da materie terrestri, silicio, carbonio, sali, anidride carbonica, mucine e lipidi, anche se combinati in modo assai strano, né minerale né vegetale, qualcuno disse primordiale, senza saper spiegare di più.
Alcune furono portate all’Istituto di medicina legale, altre alla facoltà di Zoologia, e un paio, segretamente, a un laboratorio militare che si diceva specializzato nello studio di apparizioni aliene. In un primo tempo corse la voce che potessero essere pericolose uova marziane, pronte a schiudersi e scatenare un’invasione. Ma le analisi stabilirono che non erano forme di vita, almeno come noi le intendiamo. Non avevano organi né metabolismo, erano inerti, formati da materie terrestri, silicio, carbonio, sali, anidride carbonica, mucine e lipidi, anche se combinati in modo assai strano, né minerale né vegetale, qualcuno disse primordiale, senza saper spiegare di più.
Ma studiarle a fondo non era facile: se si cercava di penetrarne le pareti svanivano quasi senza lasciare traccia, riducendosi a una goccia che evaporava in pochi istanti. Alcune si dissolsero sotto gli occhi degli scienziati, quasi non sopportassero neppure uno sguardo indagatore. E il giorno dopo, un centinaio di lacrimoidi furono segnalati in varie parti di quella città . In cortili, in strade, anche sul terrazzo di una casa.
Chi le trovava confermava che si potevano toccare, ma appena si provava ad aprirle, si dissolvevano. E svanendo esalavano nell’aria rumori simili a voci umane, e sprigionavano riflessi e colori, schegge di aurora boreale. Ma nessun registratore o telecamera riusciva a catturare il minimo suono o immagine. Non erano urticanti, né velenose, né tossiche, stabilì l’apposita commissione scientifica. La conclusione era quindi che, con ogni probabilità , si trattava di grosse, anomale gocce di pioggia, che l’inquinamento aveva reso mutanti, mostruose. Non era escluso che contenessero qualche tipo di gas sconosciuto, in grado di causare lievi allucinazioni uditive o visive. Inutile dire che su stampa e televisione uno sciame di esperti si scatenò a ipotizzare e teorizzare, anche perché la città era ormai invasa dai lacrimoidi. Per gli scienziati erano il frutto inquietante dell’incombente marasma climatico. Per i fanatici religiosi erano un avvenimento soprannaturale. Per i politici erano il risultato della dissennata politica ambientale della parte avversa. Per gli intellettuali erano materiale poetico scadente, anzi meraviglioso, anzi indicibile, e la polemica li torceva in liti interminabili. Un giovane medico scrisse in un articolo di aver notato una particolarità . Molti, quando si avvicinavano alle lacrime, erano colti da una sottile malinconia. Non paura, né angoscia, ma l’indefinibile sensazione di ritrovare qualcosa di conosciuto. Una confusa nostalgia. La reazione della scienza ufficiale fu secca: da sempre la suggestione crea fantasmi, che poi svaniscono alla prima prova empirica. Goccioloni di pioggia, e basta. Ma le rassicurazioni non bastavano. Di giorno in giorno i lacrimoidi si moltiplicavano, i camion ne scaricavano centinaia nell’inceneritore fuori città , anche se sarebbe bastato farle scoppiare. Si temeva il mistero della loro fragilità o qualche oscuro contagio? Solo una piccola parte veniva ancora conservata e studiata. Ma intanto si moltiplicavano e invadevano le strade. Prendere a calci i lacrimoidi e farli scoppiare divenne per teppisti vecchi e giovani uno sport abituale, anche se c’era una multa. Nel frattempo i misteriosi invasori erano diventati più piccoli, ma sembravano, per così dire, più vivaci, quasi arrabbiati. Cadevano in testa alle persone. Avevano fremiti improvvisi. Nello svanire, alcuni emettevano un grido animale, altri diffondevano una morgana di luce sanguigna. Uno ferì lievemente un bambino, con una vampata bollente. La città accolse inizialmente con piacere i turisti in visita. Fu allestito uno speciale parco, con vasche in cui i lacrimoidi erano esposti, con giochi di luce e musica. Ma dopo neanche un mese, la moda turistica svanì. Migliaia di portachiavi di plastica molliccia restarono invenduti. I comici non li usarono più nelle loro battute. Nessuno sapeva più cosa pensare di loro. Continuavano a moltiplicarsi, e la gente cominciava a detestarli. Ma non tutti li odiavano. Qualcuno, preso da una strana attrazione, li teneva in casa. Una donna si buttò da un tetto stringendone uno tra le braccia, e subito si sostenne che avevano un potere malefico. I giornali ebbero l’ordine di non parlarne più, gli scienziati si arresero. Non si potevano cucinare. Non si potevano vendere. Bisognava dimenticarli. Finché una sera, uno scienziato più cocciuto degli altri stava studiando una lacrima che aveva trovato nel giardino. L’aveva stesa sul tavolo, oblunga e lucente, e guardava i suoi cambiamenti di colore.
Entrò il figlio di sette anni. Osservò con attenzione e disse: – Io so cos’è.
Lo scienziato rise. – Non ridere, papà – disse il ragazzo. – Quello è un sogno. E’ il sogno che mi hai raccontato il mese scorso, quando hai detto che volevi andare a lavorare su quell’isola, per studiare le malattie degli indigeni. Vedi, dentro si vede, il mare e l’isola. Se ascolti, puoi sentire le voci di quegli uomini lontani. E questo, – disse indicando col dito una parete del lacrimoide – sei tu. A quelle parole, la lacrima si ingigantì, divenne quasi sferica, e per un attimo fu visibile allo scienziato il sogno intero, il paesaggio e i volti. Sulle prime non volle convincersi. Fece altre analisi. Il figlio lo guardava scuotendo la testa. Finché una sera, alla luce del tramonto, lo scienziato vide chiaramente dietro la materia opalina l’immagine di una donna che aveva amato. Così capì: i lacrimoidi erano sogni trascurati, mai coltivati con cura, mai seguiti con passione. Sogni perduti senza combattere, sogni buttati via. Lo scienziato ne parlò con il suo capo. Quello non gli credette, anzi si arrabbiò, sembrava che quell’idea lo sconvolgesse. Disse che ormai i lacrimoidi stavano diminuendo, non valeva la pena di rinfocolare l’interesse. Guai a lui se diffondeva quella assurda teoria. Infatti i lacrimoidi scomparvero. Il comune licenziò gran parte degli operatori addetti alla ripulitura.
Un libro, Il mistero delle lacrime aliene, neanche arrivò in libreria. Un ultimo lacrimoide, chiuso in una teca del museo, si dissolse.
Chi le trovava confermava che si potevano toccare, ma appena si provava ad aprirle, si dissolvevano. E svanendo esalavano nell’aria rumori simili a voci umane, e sprigionavano riflessi e colori, schegge di aurora boreale. Ma nessun registratore o telecamera riusciva a catturare il minimo suono o immagine. Non erano urticanti, né velenose, né tossiche, stabilì l’apposita commissione scientifica. La conclusione era quindi che, con ogni probabilità , si trattava di grosse, anomale gocce di pioggia, che l’inquinamento aveva reso mutanti, mostruose. Non era escluso che contenessero qualche tipo di gas sconosciuto, in grado di causare lievi allucinazioni uditive o visive. Inutile dire che su stampa e televisione uno sciame di esperti si scatenò a ipotizzare e teorizzare, anche perché la città era ormai invasa dai lacrimoidi. Per gli scienziati erano il frutto inquietante dell’incombente marasma climatico. Per i fanatici religiosi erano un avvenimento soprannaturale. Per i politici erano il risultato della dissennata politica ambientale della parte avversa. Per gli intellettuali erano materiale poetico scadente, anzi meraviglioso, anzi indicibile, e la polemica li torceva in liti interminabili. Un giovane medico scrisse in un articolo di aver notato una particolarità . Molti, quando si avvicinavano alle lacrime, erano colti da una sottile malinconia. Non paura, né angoscia, ma l’indefinibile sensazione di ritrovare qualcosa di conosciuto. Una confusa nostalgia. La reazione della scienza ufficiale fu secca: da sempre la suggestione crea fantasmi, che poi svaniscono alla prima prova empirica. Goccioloni di pioggia, e basta. Ma le rassicurazioni non bastavano. Di giorno in giorno i lacrimoidi si moltiplicavano, i camion ne scaricavano centinaia nell’inceneritore fuori città , anche se sarebbe bastato farle scoppiare. Si temeva il mistero della loro fragilità o qualche oscuro contagio? Solo una piccola parte veniva ancora conservata e studiata. Ma intanto si moltiplicavano e invadevano le strade. Prendere a calci i lacrimoidi e farli scoppiare divenne per teppisti vecchi e giovani uno sport abituale, anche se c’era una multa. Nel frattempo i misteriosi invasori erano diventati più piccoli, ma sembravano, per così dire, più vivaci, quasi arrabbiati. Cadevano in testa alle persone. Avevano fremiti improvvisi. Nello svanire, alcuni emettevano un grido animale, altri diffondevano una morgana di luce sanguigna. Uno ferì lievemente un bambino, con una vampata bollente. La città accolse inizialmente con piacere i turisti in visita. Fu allestito uno speciale parco, con vasche in cui i lacrimoidi erano esposti, con giochi di luce e musica. Ma dopo neanche un mese, la moda turistica svanì. Migliaia di portachiavi di plastica molliccia restarono invenduti. I comici non li usarono più nelle loro battute. Nessuno sapeva più cosa pensare di loro. Continuavano a moltiplicarsi, e la gente cominciava a detestarli. Ma non tutti li odiavano. Qualcuno, preso da una strana attrazione, li teneva in casa. Una donna si buttò da un tetto stringendone uno tra le braccia, e subito si sostenne che avevano un potere malefico. I giornali ebbero l’ordine di non parlarne più, gli scienziati si arresero. Non si potevano cucinare. Non si potevano vendere. Bisognava dimenticarli. Finché una sera, uno scienziato più cocciuto degli altri stava studiando una lacrima che aveva trovato nel giardino. L’aveva stesa sul tavolo, oblunga e lucente, e guardava i suoi cambiamenti di colore.
Entrò il figlio di sette anni. Osservò con attenzione e disse: – Io so cos’è.
Lo scienziato rise. – Non ridere, papà – disse il ragazzo. – Quello è un sogno. E’ il sogno che mi hai raccontato il mese scorso, quando hai detto che volevi andare a lavorare su quell’isola, per studiare le malattie degli indigeni. Vedi, dentro si vede, il mare e l’isola. Se ascolti, puoi sentire le voci di quegli uomini lontani. E questo, – disse indicando col dito una parete del lacrimoide – sei tu. A quelle parole, la lacrima si ingigantì, divenne quasi sferica, e per un attimo fu visibile allo scienziato il sogno intero, il paesaggio e i volti. Sulle prime non volle convincersi. Fece altre analisi. Il figlio lo guardava scuotendo la testa. Finché una sera, alla luce del tramonto, lo scienziato vide chiaramente dietro la materia opalina l’immagine di una donna che aveva amato. Così capì: i lacrimoidi erano sogni trascurati, mai coltivati con cura, mai seguiti con passione. Sogni perduti senza combattere, sogni buttati via. Lo scienziato ne parlò con il suo capo. Quello non gli credette, anzi si arrabbiò, sembrava che quell’idea lo sconvolgesse. Disse che ormai i lacrimoidi stavano diminuendo, non valeva la pena di rinfocolare l’interesse. Guai a lui se diffondeva quella assurda teoria. Infatti i lacrimoidi scomparvero. Il comune licenziò gran parte degli operatori addetti alla ripulitura.
Un libro, Il mistero delle lacrime aliene, neanche arrivò in libreria. Un ultimo lacrimoide, chiuso in una teca del museo, si dissolse.
Poi, una mattina, la città si ritrovò immersa dentro una grande bolla trasparente. La gente respirava a fatica.
E volti, parole, iniziarono ad appannarsi…
E volti, parole, iniziarono ad appannarsi…